La mia TESI per la Laurea in Arti Visive

all'UNIVERSITà DI BOLOGNA

con relatore Daniele Benati e correlatrice Nora Clerici Bagozzi nell'anno accademico 2011/2012.

Un estratto è stato pubblicato dei Musei Civici di Ferrara: Antonio Randa | MuseoinVita (LINK)

Un secondo estratto è pubblicato nel blog Librarte: "Un incontro mitico alla Cava dei Venti" (LINK)

Di seguito il solo testo, senza note, dell'Introduzione della prima versione originale:

ANTONIO RANDA, PITTORE BOLOGNESE

 

“ ... non fù alcuno che fosse per riuscir maggior maestro (...)
di un’ Antonio Randa ” 
(Malvasia)

Questa ricerca è volta a far luce sulla vita e sulle opere di un artista al quale non è stato ancor dato un giusto riconoscimento: allievo di famosi maestri del Seicento bolognese, come Reni e Massari, raggiunse una certa notorietà ma lasciò di sé testimonianze parziali, tanto che diverse sue opere sono accuratamente ricordate in alcuni luoghi (Bologna e il suo contado, Ferrara, Rovigo) e non in altri, come a Modena o Firenze, dove pur lavorò.

Bisogna anche dire che ben pochi sono i dipinti ad oggi rintracciati tra quelli ricordati dalla tradizione storiografica per il soggetto o anche solo per l’ubicazione.

Sembra quindi opportuna, anche attraverso una nuova analisi delle fonti, la rivisitazione di questo artista che, dotato di una buona tecnica, ha vissuto e preso parte ad una delle vicende pittoriche di maggior rilievo in Europa, quale è il classicismo del Seicento bolognese. I dipinti che oggi conosciamo, qui interamente catalogati, si inseriscono infatti nell’ambito delle ricerche avviate dai primi allievi dei Carracci, con Ludovico ancor vivo e operante, e testimoniano la freschezza di un linguaggio poetico che si andava innestando sulle conquiste carraccesche, nuove e all’avanguardia.

L’analisi critica delle fonti sarà preceduta da una introduzione sulla situazione culturale nella Bologna tra fine Cinquecento e inizio Seicento, dal tramonto della “maniera” agli anni della formazione dell’artista. Seguiranno le schede dedicate ai dipinti documentati dalla critica storiografica e che abbiamo ancor oggi a disposizione, spesso fotografati per l’occasione e corredati da una bibliografia aggiornata. Le opere saranno presentate in varie modalità: inquadrate nel loro contesto originale, dal punto di vista ribassato di un reale osservatore, in radenza per osservare lo stato della pellicola pittorica, in primissimo piano per valutare la tecnica di esecuzione, in dettagli che saranno utilizzati per operare confronti.

Alla luce di questo excursus saranno esposte alcune nuove scoperte a testimoniare l’alta qualità raggiunta da Randa nel suo percorso, mentre si potranno avanzare dubbi, prudenti o motivati, sull’autografia di altre opere indicate come sue dalla storiografia e dalla critica recente. Avendo indagato con metodo i dipinti riconducibili a questo artista su basi più certe che nel passato e ricostruito le tappe della sua carriera, si è anche ritenuto di poter procedere alla datazione delle sue opere, prima nella loro successione, infine nella loro collocazione temporale.

Il contesto culturale

Il corpus pittorico di Antonio Randa si inserisce in un contesto storico-artistico ben delineato: tutto nei suoi dipinti - dagli elementi formali ai soggetti rappresentati - concorre a ricostruire nella mente di chi li osserva un mondo situato in un certo tempo e in certo luogo: il suo hic et nunc corrisponde all’Emilia nella prima metà del XVII secolo e le diverse influenze che vedremo accogliere nel suo stile d’origine, facilmente individuabili, non faranno che accentuare la sua matrice pittorica, nata nell’ambito della seconda generazione degli allievi dei Carracci.

Impegnato come fu per tutta la vita a lavorare di pittura per vivere e per affermarsi nel mondo dei committenti, laici e soprattutto religiosi, non sembra esser stato un artista riflessivo sui grandi temi dell’esistenza e del suo tempo; piuttosto si ingegnò, come tanti pittori non di primo piano, per innestare nuove idee nei suoi dipinti e farle passare attraverso le rigide richieste che gli venivano sottoposte; guardandosi intorno, assorbendo stimoli cromatici-disegnativi-compositivi da altre scuole pittoriche e tramandando il ricordo della sua opera negli occhi di nuovi, giovani artisti.

Eppure la vita di chiunque venga assorbito dalle proprie attività quotidiane è sempre largamente dipendente dalle grandi vicende della storia e per capire il mondo che traspare dai suoi dipinti dobbiamo risalire a monte delle ricerche carraccesche, indietro fino al tempo della cosiddetta “Controriforma”.

La Controriforma cattolica

Nel corso del Cinquecento si diffusero in tutta Europa iniziative volte al controllo sempre maggiore degli individui, da parte degli stati e della Chiesa. John Hale vede i motivi di questa tendenza tanto nei problemi sollevati dalla crescita demografica, quanto dal senso di minaccia alla serenità spirituale determinata da nuove concezioni della religiosità. Di fronte a un pericolosissimo processo ecclesiastico, una delle formule che occorreva recitare, giurando per salvarsi l’anima (cioè la vita) era: “Io riconosco e credo che la Santa Chiesa Cattolica Romana è la vera Chiesa e la comunione dei fedeli, e che al di fuori di essa non vi è salvezza”. Ma anche nel mondo protestante, come in quello cattolico, il controllo delle libertà individuali e d’espressione aveva intenzioni rivolte maggiormente all’imposizione di una obbedienza politica e al conformismo dottrinale, piuttosto che a motivi semplicemente morali. Calvino si chiedeva “a quali conseguenze assisteremmo se ogni individuo fosse libero di seguire le proprie inclinazioni? Le congiunture sarebbero incresciose se la predicazione dottrinale non fosse corroborata da moniti privati, riprovazioni e altri strumenti di pressione atti a piegare gli spiriti agli imperativi della dottrina stessa”.

Con queste premesse, le tappe erano obbligate: nel 1542 la Chiesa riorganizza l’Inquisizione col nuovo nome di Sant’Uffizio, nel 1543 impone la censura sulla stampa, nel 1545 apre il Concilio di Trento, durato 18 anni, che terrà proprio a Bologna alcune sedute. La Compagnia di Gesù di Ignazio di Loyola - figura che vedremo comparire come in disparte in un dipinto di Antonio Randa - si porrà come modello di disciplina volto a propagandare con ogni mezzo la vera fede. Le opere d’arte destinate agli edifici sacri dovevano essere sottoposte a controlli teologici: Giorgio Vasari si sentiva a disagio quando non aveva accanto un teologo mentre dipingeva in Vaticano. La nudità della carne fu uno degli obiettivi contro cui scagliarsi, come risulta dagli scritti religiosi che proponevano agli artisti le indicazioni cui attenersi, a partire dal Dialogo degli errori dei pittori del Gilio (1564) e dal Riposo di Raffaele Borghini (1584). Peraltro, il controllo al quale l’arte venne sottoposta da parte della Chiesa non fece che incrementarne il prestigio, al punto da essere utilizzata come arma contro le eresie.

Sovente gli artisti cresciuti in questo clima non si limitavano ad osservare rigidamente la dottrina religiosa, ma la sentivano intimamente e la facevano propria: alzandosi all’alba per pregare, quindi recandosi a messa prima di mettersi al lavoro, tornando alle funzioni della sera, frequentando almeno settimanalmente una confraternita. C’era chi pregava il santo che si accingeva a raffigurare, per una degna riuscita dell’opera.

A complicare ulteriormente il contesto di sollecitazioni, pressioni e censure che l’arte doveva fronteggiare e soddisfare, era la presenza concomitante di più tendenze ideologiche, anche all’interno della stessa chiesa romana: Calvesi distingue tra un’ala dedita al conforto dei poveri (sostenuta da confraternite, ordini mendicanti, oratoriani di Filippo Neri e alti prelati come Carlo e Federico Borromeo) e quanti invece li accusavano di avere “lo sfavore del Cristo”, essere “colpevoli della loro miseria”, per giustificare il trionfo di splendore della Chiesa attraverso la ricchezza materiale (e, con questo, arrivando ad avversare le visioni pauperistiche del Caravaggio).

Le idee della Riforma protestante, d’altro canto, stentarono a penetrare nella società bolognese, pur con la presenza di tanti studenti universitari “ultramontani”; forse per la necessità da parte della nobiltà senatoria di conservare i propri privilegi senza metterli a rischio con la condivisione di idee sovversive; nell’ambito della spartizione del governo della città tra Senato e Cardinal Legato e con l’aspirazione ad acquisire ruoli di prestigio all’interno di quello stato che aveva Roma come capitale. La ricerca di alcuni artisti locali seguiva fin dal Francia questa ambizione diffusa nell’ambito cittadino, portandoli verso un ideale di “classicità romana”, ma vedremo i Carracci e i loro seguaci modularla in termini più articolati. Un’altra anima pittorica, in effetti, imbevuta di sagace umanità, proseguiva la strada anticlassica aperta da Vitale, sostenuta con convinzione da Aspertini e convogliata anch’essa nel crogiolo stilistico carraccesco.

Andrea Emiliani sostiene la tesi di una voluta e pesante ingerenza da parte del potere ecclesiastico per indirizzare l’arte (stilisticamente) e l’ambiente felsineo e poi europeo (culturalmente e politicamente, attraverso quello stile) verso l’ufficialità del classicismo: prima con Leone X e l’invio della Santa Cecilia di Raffaello (intorno al 1515), poi con il programma di rivolgimento urbanistico portato avanti da Pio IV, con legato Carlo Borromeo e vice legato Pier Donato Cesi, che portò all’edificazione di Archiginnasio, Ospedale della Morte, facciata scenografica dei Banchi e all’apertura della Piazza del Nettuno, con la scultura michelangiolesca di Jean Boulogne (terminata nel 1566). Oltre alla successiva presenza del simulacro del papa Gregorio XIII (1580, ad opera di Alessandro Menganti), di famiglia locale, che, con la forza del suo prestigio riformatore, prendeva il posto sulla piazza dei bolognesi del Giulio II di Michelangelo, distrutto dai bolognesi stessi. Questi interventi lasceranno dei segni: Emiliani vede nel disegno del piviale nella scultura papale l’impronta di Agostino Carracci, mentre il poderoso dio romano tornerà movimentato in varie pose negli affreschi carracceschi di casa Sampieri e la memoria del dipinto raffaellesco echeggerà in tante composizioni pittoriche, comprese alcune di Randa; a parte che per Reni e le sue visioni apollinee, queste influenze non rivoluzionarono però l’anima dell’arte bolognese, dinamica e complessa come la vita.

C’è poi da notare che le esecuzioni capitali da parte dell’Inquisizione, guidata dai domenicani, iniziarono nel 1567 ma furono relativamente poche, fino a cessare all’inizio del Seicento, in un clima meno severo che altrove. Il cardinale bolognese Gabriele Paleotti, tenuto ad applicare agli artisti le indicazioni conciliari, promosse anche azioni di rinnovamento e moralizzazione della chiesa cittadina: in particolar modo riorganizzò le confraternite, che a Bologna dall’epoca medievale erano state particolarmente numerose, svolgendo un ruolo importante nella vita sociale ed assistenziale della città, incrementando anche il patrimonio artistico con commissioni dirette o da parte dei devoti; mentre ne sorgevano di nuove, prima del loro declino nel corso del Seicento.

Paleotti, che in gioventù aveva collaborato con Prospero Fontana all’organizzazione di una commedia per l’Accademia degli Affumati, iniziò dal 1578 a raccogliere idee per il suo Discorso sulle immagini sacre e profane che avrebbe destinato alla nuova educazione degli artisti. Si informò sulle iniziative prese a Milano dal cardinale Borromeo per mettere in pratica le direttive della XXV Sessione del Concilio, dedicata alle immagini sacre: il cardinale milanese aveva prescritto ai vescovi di convocare gli artisti per istruirli su quali tipologie di immagini era lecito raffigurare. In tale contesto, l’abate della chiesa bolognese di San Procolo avanzò proposte al proprio cardinale, suggerendo di istituire un organismo di controllo sull’operato degli artisti e persino di individuare un numero ristretto di artisti ufficiali, unici abilitati a dipingere immagini sacre, col “gran desio di veder tolto così grande orrore”, ovvero quelle rappresentazioni che non attiravano i fedeli, ma li allontanavano dalle chiese.

Mantenendosi distante da queste idee radicali, le indicazioni di Paleotti rivolte agli operatori dell’arte si possono riassumere in tre principi fondamentali: le immagini sacre devono dilettare, insegnare e commuovere. La commozione doveva far nascere il sentimento religioso attraverso la retorica della gestualità, strumento umano universale volto alla persuasione, all’interno di un discorso figurativo semplice e chiaro da intendere da parte di tutti i fedeli. I gesti che sottolineano la sottomissione sono quelli maggiormente adatti ad esprimere la devozione nei confronti di un essere superiore ed è proprio questo sentimento di devozione religiosa che bisognava trasmettere ai fedeli, i quali dovevano essere portati a riconoscerlo e condividerlo attraverso l’esempio dei santi.

Con queste indicazioni si stava costruendo il mondo pittorico che fu proprio dei Carracci e, declinato in tanti personalismi, dei loro allievi. Manca ancora il requisito di realtà, che si installò all’interno dell’Accademia dei Carracci accanto all’elemento classicista e che, almeno a Bologna, fu promosso indirettamente da parte della chiesa. Tra i consulenti culturali del cardinale, infatti - oltre all’architetto Domenico Tibaldi e al pittore Prospero Fontana, esponente della tradizione artistica attardata sugli stilemi manieristi - figurava Ulisse Aldrovandi e fu questo importante naturalista, all’avanguardia nel suo campo, a suggerire l’idea che l’arte dovesse seguire la natura, imitarla, seguendo il vero. La congiuntura tra necessità religiosa e rinnovamento dell’arte era pronta: il Discorso di Paleotti venne stampato nel 1582 e l’anno seguente i tre Carracci iniziarono con gli affreschi in Palazzo Fava il cammino che li avrebbe portati a influenzare considerevolmente l’arte europea.

La riforma dei Carracci

Un fenomeno culturale di rilievo accadde tra ‘500 e ‘600, incalzato dal bisogno delle persone di cultura di conoscersi, incontrarsi, riflettere e discutere insieme su come far progredire gli ideali umanistici, mantenendosi per quel che era possibile autonomi rispetto al potere politico e religioso. Il termine “Accademia” richiama l’intuizione di Platone, la socializzazione della cultura in un contesto dialettico, e porta idealmente verso la culla italiana della classicità, Roma. Come seconda città dello Stato Pontificio, Bologna voleva emergere con la sua tradizione dotta e mettersi alla pari con la capitale: si riempì di accademie, ben 108, dai nomi che oggi sentiamo come paradossali - accademia Ermatena, dei Gelati, dei Torbidi, dei Sizienti o Assetati - e con intenti letterari, giuridici, militareschi, per organizzare incontri poetici o giostre cavalleresche. Nell’ambito di un processo di emancipazione di ogni arte dalle altre, quella degli artisti (nel senso che diamo oggi al termine) aspirava a slegarsi dalla tradizione di mera manualità e, con l’orgoglio manifesto di volersi porre sullo stesso piano delle associazioni umanistiche, comparve infine l’Accademia del Naturale, poi dei Desiderosi e degli Incamminati, in quella bottega dei Carracci che volle subito differenziarsi dalle altre “stanze” tenute da tanti artisti sulla scia delle botteghe rinascimentali. I Desiderosi aspiravano a fondere teoria e pratica, disegno e pittura, stili regionali diversi in un quadro di universalità delle arti e di italianità della pittura; la loro scuola era aperta al nuovo, molteplice mondo della cultura, stimolando gli incontri tra arti, lettere e scienze.

In polemica con una lettura puramente eclettica proposta dal Malvasia per interpretare il programma carraccesco (che venne riproposta e aggravata nei secoli seguenti), nelle loro opere Longhi vide piuttosto un ritorno alla luce vera - dopo diversi anni nei quali aveva regnato la luce mentale dei manieristi - e il bisogno di comunicare con “lo spettacolo mutevole delle circostanze di natura”. Tuttavia il desiderio di incontrarsi col naturale si incrociò con un altro fenomeno, frutto dello spirito del loro tempo: la storicizzazione del passato e del presente. Venendo facilmente a conoscenza delle opere di artisti di luoghi o di tempi diversi, attraverso possibilità di spostamento più veloci e strumenti di conoscenza più sofisticati (libri e incisioni a stampa), si trovarono a dover fare i conti con un mondo più ampio e prontamente attingibile. Spunti pittorici disparati stuzzicavano infatti la fantasia dei giovani pittori: secondo Longhi, i Carracci arrivarono a fondere quelle sollecitazioni nella ricerca di una cultura italiana unitaria, “fusa e impastata come costume civile”.

Charles Dempsey approfondì queste riflessioni sottolineando il diffondersi, tra i letterati italiani del Cinquecento, della convinzione di appartenere ad un unico mondo culturale ricordando, in proposito, l’ansia di unificare la lingua italiana perseguita dalle accademie letterarie; nella nascente storia dell’arte regnava invece il dibattito sul ruolo svolto da Roma, in virtù della “classicità”, contrapposta ai più modesti naturalismi proposti dai centri periferici. Quello che si venne a creare, invece, fu ben più di questo: la “Città eterna”, sotto un certo punto di vista, divenne il centro che faceva risplendere i fermenti nati altrove e in gara tra loro. I Carracci, non per caso, lodavano sì Michelangelo e Raffaello ma, puntando a differenziarsi dai loro predecessori manieristi, impostarono i loro studi in direzione di Parma e Venezia, senza dimenticare la provenienza lombarda della loro famiglia; progettando di far nascere, con questi intenti, un’arte nazionale che fondesse la “classicità” (variamente tramandata dai resti dell’antichità romana e riletta dal Rinascimento tosco-romano) con la creatività dei centri lontani da Roma: il tonalismo veneto, la pittura travolgente di Federico Barocci e il senso del naturale “lombardo” (intendendo con questo sia la pittura parmense “degli affetti”, che il luminismo bresciano e l’amore dei cremonesi per la verità fiamminga).

Già Giulio Carlo Cavalli, seguendo Mahon e Gnudi, rifiutò l’accusa di eclettismo: la crisi del Rinascimento portò alla frantumazione della “totalità dello spirito” in tanti contenuti particolari, che i Carracci ebbero il compito storico di raccogliere e assemblare in una nuova forma, scegliendo una via diversa dalla “rivoluzionaria protesta morale del Caravaggio”. Argan vide lo studio e l’integrazione degli stili come una rivendicazione della libertà dalle regole, il trionfo dell’immaginazione creativa e poetica; e “ridare naturalezza alle forme dell’arte è il miglior modo per dar loro la capacità di agire sulla natura umana, sul sentimento”. Secondo Barilli fu una “necessità storica”, in quel momento, l’apertura agli stili dei maestri di tutta Italia, avversa ad una scelta stilistica univoca, garantendo così a quel secolo “una banda larga, un canone di vaste potenzialità, (...) in luogo del passaggio stretto e vincolante fornito dal caravaggismo”.

Da parte sua, Daniele Benati esalta come “moderna” la scelta intrapresa da Annibale di imitare il naturale, che lo allontanava dai pittori della generazione del Vasari (da Annibale  stesso beffeggiato nelle postille vergate sulla sua copia delle Vite), mentre lo avvicinava al Caravaggio. Arrivando a esiti paesaggistici degni di un plein air e studiando il colore della luce naturale, il più giovane dei Carracci riflesse criticamente e creativamente sulle possibilità della pittura di confrontarsi col reale. Ma noi tutti sentiamo come “vera” la realtà quotidiana soprattutto in virtù delle emozioni che proviamo di fronte ad essa e i Carracci cercarono di infondere nella loro pittura proprio i sentimenti, gli “affetti”, andando oltre il mero patetismo richiesto dalla Controriforma, utilizzando in modo coerente diversi sistemi: una gestualità eloquente, una varietà di espressioni facciali, illuminazioni a chiaroscuro, colori naturali e carne viva, dolci sfumati correggeschi ed effetti tonali veronesiani: il tutto messo in scena nel fluire degli eventi, con l’inserimento nel racconto storico. Queste conoscenze, approfondite prima del trasferimento a Roma, verranno utilizzate da Annibale per dare enfasi alle illusioni che, dall’alto della Galleria Farnese, insedieranno la finzione del reale nel concetto stesso di classicità.

La Bologna pittorica di Randa

È nel contesto fin qui descritto che si situa l’intreccio di esperienze pittoriche che vivacizzò la Bologna di inizio Seicento, città di non grandi dimensioni, pur accogliendo un numero ragguardevole di artisti, molti locali e altri giunti da fuori, attirati dall’importanza delle ricerche artistiche che qui si stavano costruendo.

L’Accademia dei Carracci, col suo peso culturale, assunse da subito un prestigio tale da sopravanzare le botteghe dei concorrenti, limitate alla pratica (Samacchini, Calvaert, Cesi e altri). In seguito saranno gli artisti usciti dalla loro scuola a dar vita a nuove correnti in competizione tra loro, animando la scena non soltanto a Bologna, dato che saranno chiamati a Parma, Roma, Napoli, arrivando fino a Malta (con Leonello Spada forse in compagnia di Lucio Massari). Gli spostamenti dovevano essere relativamente agevoli sul percorso Bologna-Roma, specie passando dal versante adriatico per rimanere nell’ambito dello Stato Pontificio e aggirare la Toscana; Guido Reni, ad esempio, sarà documentato più volte in entrambe le città nell’arco di pochi mesi, rendendo difficile agli storici seguirlo nei suoi veloci trasferimenti.

Reni, Lanfranco, Albani, Spada, Massari e altri, compresi Cavedoni e Mastelletta, ambivano alla fama cercando commissioni a Roma dove riportavano saltuarie influenze da Caravaggio, riscontrabili nelle loro opere anche quando si limitavano ad una generica conoscenza del suo forte realismo in chiave drammatica e teatrale, che era comunque altra cosa dal naturalismo classicista proprio dei bolognesi, quel loro “abbraccio naturale sul mondo”. A Bologna rimase Ludovico, a portare avanti l’Accademia e impegnando i giovani allievi in imprese dove si potevano distinguere, come negli affreschi in San Michele in Bosco, nell’Oratorio di San Colombano e persino per le celebrazioni dedicate ad Agostino nel  1603, anno successivo alla sua morte; anche con la preparazione di “cartoni colorati” che metteva a loro disposizione per far fronte alle tante commissioni. Amicizie, collaborazioni e competizioni si risolsero a volte in diatribe polemiche, come nei casi di Pietro Faccini e Guido Reni, i quali lasciarono il gruppo aprendo loro scuole; mentre Alessandro Tiarini, inizialmente estromesso dall’Accademia, fu in seguito chiamato da Ludovico per rimediare all’improvvisa carenza di artisti sulla piazza bolognese, alla fine del primo decennio del Seicento.

Andavano intanto emergendo le figure del Domenichino e del Guercino: questo artista divenne tanto celebre da ricevere la visita di Velázquez, arrivato apposta a Cento per conoscerlo. Ma il più conteso da nobili e imperatori fu Guido Reni, persona pia pur se orgoglioso del proprio valore, artista classico per antonomasia, il cui cromatismo brillante e contrastato sostenne sia la perentoria teatralità delle scene di storia, sia l’infinita dolcezza delle sue Madonne: la pelle di queste figure è resa morbida e palpabile da stesure di quella bianca pittura che, negli ultimi anni, gli farà trascendere le sue stesse conquiste in evocazioni di immagini private del colore, sospese in una atmosfera sempre più distante dal mondo della realtà quotidiana.

Tanti furono i giovani pittori che ambirono ad essere considerati suoi allievi, partecipando attivamente alla vita delle sue diverse “stanze” oppure passandovi sporadicamente per cogliere qualche spunto dai suoi lavori in corso d’opera (per questo motivo Reni riservava ai suoi lavori più importanti ambienti appartati, per evitare plagi da parte di giovani di passaggio e per smorzare invidie tra gli assistenti più stretti). La prima partecipazione documentata di collaboratori alle sue imprese pittoriche data al 1610, con la decorazione della cappella dell’Annunziata nel palazzo del Quirinale.

Non sappiamo quando Reni iniziò la sua scuola bolognese ed è aleatorio distinguere tra una scuola vera e propria - ciò che probabilmente non è mai stato - e un atelier con allievi e assistenti, ma diverse fonti indicano che da una delle sue “stanze” passò Antonio Randa, ricordato tra i primi allievi: questo poté verificarsi solamente al tempo degli spostamenti del maestro tra Bologna e Roma (1610-1614), quando aveva in contemporanea numerose commissioni, di notevole rilievo e su grandi superfici, dovendo pertanto avvalersi di aiuti in entrambe le città, oltre che a Ravenna.

Paolo Beretti

nell'anno 2012